Presentiamo i cardini principali del nostro lavoro con il fine di rendere trasparenti le prassi metodologiche che strutturano i progetti di ricerca.
La ricerca etnografica
In una prima sintesi crediamo che si possano enucleare almeno tre distinzioni relativamente al significato di etnografia:
L’etnografia come attività. Nella prima accezione essa è una pratica di lavoro sul campo (fieldwork). Intendiamo per fieldwork il campo di lavoro in cui il ricercatore si impegna nell’incontro con i soggetti (ma anche con gli oggetti, con i processi e con gli spazi) del proprio studio, condivide una parte della loro vita per quanto gli è possibile, la osserva con l’attenzione di cui è capace, cercando di ampliare le proprie capacità percettive e cognitive e cerca di dialogare con loro nel loro stesso linguaggio (all’inizio avrà probabilmente bisogno di un mediatore, di un interprete, ma gradatamente cercherà di farne a meno). Il lavoro sul campo può essere svolto per osservazione partecipante (con tenuta di un dettagliato diario di campo) e/o per mezzo di interviste in profondità.
L’etnografia come sforzo intellettuale e paradigma. Nella seconda accezione essa è parte di una lunga tradizione intellettuale di progressivo allontanamento dai principi positivisti (grossolanamente parlando, dall’idea che i fatti esistano indipendentemente dalle interpretazioni e che questi fatti si rivelino da sé), di sensibilizzazione alla pluralità dei punti di vista in gioco e quindi di critica delle relazioni di potere stabilite.
L’etnografia come stile narrativo e lavoro riflessivo. Nella terza accezione, infine, presuppone che le identità delle persone in gioco siano rilevanti e che siano inscindibili dalle narrazioni del sé; il sé dei soggetti indagati, e dei soggetti che indagano. Quindi presuppone una modalità di esporre i risultati della ricerca che sia appunto fortemente riflessiva e lo sia su un duplice versante: da un lato infatti crea le condizioni per accendere la riflessività degli attori che sono oggetto della ricerca e chiama in causa anche la riflessività dei ricercatori su se stessi, concentrandoli soprattutto sulle condizioni (e i condizionamenti) in cui la ricerca è stata prodotta (per esempio tutte le problematiche e modalità di negoziazione di accesso e di disclosure, oltre alle distorisioni che queste condizioni portano con sé); dall’altro illumina il circuito tra descrizione di una cultura e costruzione di essa.
L’analisi culturale delle organizzazioni
Proseguendo nelle puntualizzazioni definitorie, l’etnografia organizzativa, come tipo particolare di ricerca etnografica, viene da noi intesa come l’attività di osservazione, descrizione e interpretazione della cultura o meglio delle culture dell’organizzazione. I concetti di cultura e identità vanno sempre rimessi in discussione come concetti unitari, vanno declinati al plurale e visti come multipli. L’etnografia deve allora necessariamente contemplare le strategie di costruzione di questa molteplicità, le retoriche a essa connesse e i processi storici che sono alla base della loro costruzione, anche e soprattutto quando queste costruzioni sono presentate come “reificazioni”, soprattutto dagli attori al vertice delle organizzazioni stesse.
Come è stato recentemente ricordato nell’ambito dell’antropologia industriale, il compito principale di una ricerca qualitativa resta invece quello di rovesciare ogni prospettiva ipostatizzante, e di ponderare invece il ruolo manageriale tra la manipolazione attiva di e la sottomissione passiva a teorie e modelli astratti. Per prima cosa cercando di capire come tali dispositivi sono stati introdotti, mobilitati e messi in opera al fine di organizzare l’attività produttiva e gli scambi interni, e dunque al fine di definire e mantenere un ordine anche sociale nell’impresa stessa.
Leggere i processi culturali che attraversano l’organizzazione significa quindi trovare gli elementi che rappresentano le premesse per le azioni e le decisioni e indagare quali sono gli elementi di invarianza (deep seated) e quali quelli di flusso e di cambiamento. Nello studio della cultura organizzativa, di come viene trasmessa e inculcata e di come i soggetti a essa reagiscono, è necessaria da parte dei ricercatori un’ulteriore consapevolezza riguardo agli ingredienti che esprimono ambiguità e contraddittorietà delle persone verso l’organizzazione cui appartengono. Questi ultimi sono elementi che le interviste possono spesso rivelare nelle pieghe del discorso raccolto: da un lato profonde convinzioni, intense emozioni, autentiche esperienze di lealtà, impegno e piacere del lavoro; dall’altro ironia, cinismo, autoanalisi oppure rifiuto, spersonalizzazione, recitazione fino alla rottura del controllo nel burn-out.
Tale consapevolezza è opportuna per due motivi: sia per controbilanciare una lettura eccessivamente oggettivista della cultura stessa, sia per non trascurare la lezione della scienza organizzativa che ha denunciato i tentativi di manipolazione manageriale di cui la cultura organizzativa può esser fatta oggetto diventando una forma di “tirannia corporata”. Si tratta per la verità di una forma di tirannia che appare assai più insidiosa in teoria di quanto non sia in realtà per il solo fatto che è assai raro che manipolazioni di questo genere funzionino davvero come i manager talvolta vorrebbero.
Quella lezione dimostra, ancora una volta, l’irriducibilità della personalità privata alla personalità organizzativa, rivela il multiple-self dell’attore organizzativo stesso che si muove in un continuo intreccio e alternarsi tra adesione e identificazione nel proprio ruolo lavorativo e presa di distanza da esso.
Ogni etnografia è del resto, sempre il tentativo di dare risposta al medesimo interrogativo, ovvero che cosa garantisce una qualche coerenza al sistema sociale (sistema sociale che nel nostro caso è l’organizzazione o un segmento di essa); che cosa impone ordine al caos indifferenziato?; oppure, al rovescio, che cosa impedisce od ostacola tale coerenza?
La definizione ricorsiva dell’universo di osservazione
Proprio perché la ricerca qualitativa non promette né conclusioni apodittiche né rappresentatività statistiche, preferiamo evitare di riferirci all’universo di osservazione e al procedimento di definizione progressiva come a un processo di “campionamento”. Siamo consapevoli che, per quanto possa essere seriamente ponderato, l’insieme degli attori organizzativi presi in osservazione dalla ricerca etnografica spesso non riesce, né può riuscire, a rappresentare in maniera proporzionale le persone organizzative per livelli gerarchici e per aree funzionali o famiglie professionali. Il “campione” finisce quindi per essere tale per ragioni di convenienza.
Una buona ricerca etnografica per potere dare risultati significativi deve soprattutto avere la fortuna di contare su una collaborazione virtuosa con i vertici della struttura, ma anche di fare affidamento su intermediari coinvolti e interessati che facciano contemporaneamente da guardiani e garanti per l’organizzazione e da broker e da guida per i ricercatori che chiedono l’accesso all’organizzazione stessa. La popolazione oggetto di ricerca e le tematiche da metter a fuoco non potranno che emergere da un processo di dialogo tra committenza e ricercatori e da una negoziazione che metta in chiaro anche le reciproche esigenze: conoscitive (che cosa vogliamo conoscere), pratiche (come possiamo conoscere) ed etiche (come possiamo farlo nel rispetto delle istanze fondamentali di tutti i soggetti coinvolti: problematiche di disclosure, segretezza e privacy).
L’intervista non strutturata
Rispetto alla generalità dei Business Studies e ai loro modelli di rappresentazione della realtà fatti spesso a scapito del realismo (almeno di quelli che si caratterizzano per tratti più comportamentisti, positivisti, monoculturali, quantitativi e maggiormente centrati sui modelli americani), l’etnografia sembra essere l’opposto. Non sono mancati tuttavia, alcuni esempi di compromesso proficuo tra modalità di ricerca dei Business Studies e dell’antropologia sociale. Uno dei metodi di lavoro che con minori difficoltà può essere riconosciuto da entrambe questi paradigmi è quello del ricorso all’intervista non strutturata.
Parliamo di intervista non strutturata quando ci riferiamo a una modalità ideale di interrogazione del testimone che rinuncia esplicitamente a partire da una predefinita serie di domande (di cui il questionario a risposta chiusa è l’esempio estremo). Rispetto al lavoro sul campo e all’osservazione non è in antitesi, ma ne rappresenta anzi una continuità spesso più praticabile nel contesto organizzativo.
Come abbiamo spiegato, fare ricerca sulle culture organizzative significa indagare anche su elementi non sempre facilmente accessibili a livello di coscienza, perché impliciti, invisibili e profondi, non sempre esprimibili in modo diretto da parte degli attori (soprattutto per quanto riguarda i loro assunti e i loro principi).
La ricerca qualitativa indaga esattamente questo profondo, questi impliciti e queste sottrazioni. L’intervista non strutturata lascia che sia testimone stesso a definire l’agenda di ricerca e quindi rinuncia, intenzionalmente, a rispondere a domande come: “di che cosa parleremo?”; “che cosa andiamo cercando?” e “come faremo a trovarlo?”. Quello che si attende chi sceglie di lavorare con questo tipo di intervista è di trovarsi a parlare di ciò che è importante per l’intervistato e non di ciò che è importante a priori per l’intervistatore. Il focus stesso del lavoro di descrizione e comprensione è derivato da coloro con cui il ricercatore entra in relazione nel campo di ricerca: il focus che gli attori utilizzano per dare ordine alle proprie vite e alle proprie relazioni entro il contesto organizzativo.
I vantaggi dell’intervista non strutturata e semi-strutturata
Rispetto al ricorso massiccio ed esclusivo all’indagine attraverso questionari che, si è fatto in tempi recenti, la nostra modalità di intervista etnografica conta su un vantaggio comparato: quello di evitare la generalizzata resistenza, il crescente fastidio e il diffuso scetticismo che tali questionari vanno sempre più producendo all’interno delle grandi organizzazioni in cui sono crescentemente somministrati.
La spiegazione di queste reazioni sembra risiedere in una duplice ragione: spesso i questionari (per la scarsa conoscenza del campo che i ricercatori possono portare) pongono agli attori domande sbagliate o comunque domande che gli attori percepiscono come poco rilevanti; oppure altrettanto spesso questi stessi questionari sezionano goffamente le pratiche e quindi “uniscono ciò che è diviso e separano ciò che è unito”.
Al contrario l’indagine attraverso l’intervista non strutturata lascia agli intervistati il modo di fare emergere problemi, criticità e sofferenze così come essi ne fanno quotidianamente esperienza e di esprimerli nei propri stessi termini. Mette un qualche potere nelle mani dell’attore sociale, sovvertendo, almeno momentaneamente, le gerarchie. Promette una risposta positiva anche per il solo fatto che le occasioni in cui le persone possono parlare con lunghezza del proprio lavoro a un ascoltatore attento e interessato sono tutto meno che frequenti.
L’intento dell’intervista non strutturata e non direttiva è quindi quello di stimolare l’interlocutore a una sorta di monologo, un monologo che ha per oggetto il proprio lavoro.
Non ci si può nascondere tuttavia che non tutti gli intervistati sono degli spontanei narratori, né tantomeno dei narratori abili o anche solo capaci. Anche per fare fronte a questa probabile evenienza è opportuno procedere con alcune cautele. Per stimolare l’interlocutore si ricorre a riprese o parafrasi del suo stesso parlato che incoraggino a una più approfondita spiegazione o a un ampliamento di discorso. Come l’universo degli intervistati, anche la griglia di intervista va costruita ricorsivamente: le prime saranno utilizzate insieme ad altra documentazione scritta per meglio definire, attraverso un lavoro di codifica, una serie di campi (concetti, oggetti, eventi, azioni e simboli) che sembrano caratterizzare il flusso del lavoro. Il proseguo della serie di interviste permette di arricchire strada facendo la griglia di nuovi dominî.
La scelta della forma autobiografica
L’idea di utilizzare le interviste come strumenti di conoscenza e sollecitazione di riflessione da parte del testimone sul contesto organizzativo, si fonda dunque sulla convinzione che tali testimonianze possano costituire un buono strumento per descrivere e spiegare i comportamenti effettivi delle persone nell’organizzazione, le loro convinzioni dichiarate e quelle lasciate implicite, ma anche per verificare che cosa garantisce oppure manca di garantire la coerenza fra esperienza e pensiero delle persone e la non divaricazione fra le persone stesse e i ruoli rivestiti da ciascuno nelle rispettive posizioni.
L’ulteriore scelta della forma autobiografica per il dipanarsi dell’intervista non strutturata richiede una parimenti ulteriore qualificazione. Un colloquio non strutturato di questa forma prende non meno di due o tre ore di tempo, senza prevedere propriamente domande o questioni dirette, ma solo alcune suggestioni che ruotino intono a tre assi: una prima parte di breve presentazione di sé e della propria storia, non solo o non necessariamente solo professionale; una seconda in cui l’intervistato inquadri i contenuti e gli obiettivi della propria funzione; e una terza in cui gli si chieda invece di esplicitare i problemi maggiori relativi al proprio lavoro.
Perché l’autobiografia dei soggetti intervistati è rilevante ai fini di un obiettivo come quello dell’indagine su una organizzazione? Per motivi diversi e correlati che hanno a che fare con l’integrità del racconto autobiografico.
Innanzi tutto perché il soggetto si manifesta nella durata e nel lavoro della memoria; la persona, e soprattutto la coscienza della persona, si formano e si trasformano nel tempo, nel cambiamento e nelle alternanze dell’esistenza (non solo nel successo, ma anche nello scacco, nella sproporzione delle forze allo scopo, nella fallibilità).
In secondo luogo perché l’identità della persona è sempre equitemporalità di passato, presente e futuro, che nella identità della coscienza convivono. È questo che aggancia per esempio l’identità all’etica. Infatti non c’è nessun racconto autobiografico che sia eticamente neutro: raccontare sta sempre tra il descrivere e il prescrivere; nell’autobiografia vengono quindi saggiati apprezzamenti, valutazioni, giudizi di approvazione e di condanna.
Un approccio olistico e relazionale: quando è particolarmente utile?
Mentre gli specialisti dei Business Studies distinguono, separano e parcellizzano, l’etnografia organizzativa presuppone una metodologia di ricerca relazionale e olistica: relazionale perché è fondata sulla relazione attiva tra il ricercatore e il fieldwork e fra il ricercatore e gli intervistati; olistica perché tende a tenere “tutto insieme”. La metodologia olistica di inchiesta funziona proprio perché è l’impresa stessa che tende a rappresentarsi come olistica, in cui tutto è in relazione con tutto. Tale metodologia assume di fatto che non ci sia soluzione di continuità nella catena delle rilevanze; presuppone per esempio che le relazioni personali influenzino le relazioni professionali; che amicizia ed omofilia influenzino gli scambi tra le persone; che la religione influenzi la morale; che la morale influenzi le pratiche; che il linguaggio influenzi i rapporti di potere e i rapporti politici e che la vita delle persone dentro l’organizzazione non possa essere separata da quella fuori dalla organizzazione. L’olismo metodologico non deve naturalmente tradursi in un inutile e fuorviante olismo descrittivo. Poggia sull’assunto dell’antropologia sociale secondo il quale la verità di ogni asserto è socialmente costruita e socialmente-relativa, quindi sempre multi-sfaccettata e plurivocale.
L’analisi del territorio
Partiamo dall’idea che il territorio sia il risultato di un intreccio di significati e di processi di natura culturale, un punto di osservazione privilegiata per analizzare il nesso tra uomo e spazio, il reciproco condizionamento tra aspetti fisici ed ecologici e lo svolgersi della vita umana.
Il nostro approccio procede perciò considerando l’intersecarsi di coordinate sincroniche e diacroniche. Il primo asse coinvolge sia la dimensione economica e politica, le relazioni operanti sul territorio, il rapporto tra comunità locali e risorse presenti, sia quella culturale e sociale, i vissuti, le memorie, i significati attribuiti ai luoghi e al rapporto con essi.
All’osservazione di questi fattori viene data profondità attraverso il ricorso a una prospettiva storica e comparativa, poiché riteniamo che i luoghi siano costantemente sottoposti a mutamenti attraverso l’azione e la manipolazione umana e che gli esiti contemporanei siano sì il frutto di stratificazioni successive, ma non necessariamente esito di percorsi lineari. Essi sono piuttosto il risultato di processi di selezione e di attivazione di alcune tra le possibilità disponibili e in cui, ancora una volta, intervengono fattori non solo ecologici, ma anche, e sopratutto, culturali.
A tali convinzioni fanno seguito interventi finalizzati a proporre azioni di tutela del territorio, delle diverse espressioni umane in esso presenti, siano esse materiali o immateriali, fondate sulla consapevolezza critica della sua complessità e rivolte in special modo al coinvolgimento delle comunità che lo abitano.
Produzione e gestione della fonte orale
Proprio perché pensiamo all’intervista come a un efficace strumento di indagine etnografica ci adoperiamo affinché la catena di operazioni necessarie alla sua produzione sia il più possibile corretta, trasparente e scientifica. Tale attenzione è motivata dal fatto che, una volta prodotta con suddetti criteri, l’intervista realizzata diventa un documento, e come tale deve essere accessibile, interrogabile e verificabile da soggetti terzi anche estranei alla ricerca per la quale essa è nata.
Pertanto riteniamo che le interviste vadano corredate da tutta una serie di informazioni, alcune delle quali raccolte in fase di produzione, altre successivamente, che mirino a inquadrare in modo esaustivo il progetto di ricerca, il contesto entro quale esse sono state realizzate, i dati relativi a intervistatori ed intervistati, la descrizione del contenuto e di eventuali materiali allegati o di corredo. Realizziamo di preferenza videointerviste, in grado di dettagliare le parole degli intervistati più di quanto non faccia la semplice registrazione audio, e poniamo particolare cura nella realizzazione di documenti di alta qualità attraverso la scelta di supporti e di strumenti di registrazione appropriati.
Nelle fasi di produzione, gestione e pubblicazione delle interviste ci atteniamo alle norme di tutela e protezione dei dati personali dettate dalla legge.
L’utilizzazione del supporto video
Il ricorso al supporto video permette un duplice guadagno: da un lato fornisce uno strumento semanticamente più pieno e ricco di documentazione e archiviazione del materiale raccolto, dall’altro consente di potere utilizzare il girato grezzo per successivi prodotti audiovisivi che accompagnino il resoconto finale scritto.
Sottolineiamo che ci pare particolarmente importante, a questo proposito, il mutuo controllo del girato tra ricercatore e testimone. I commenti dei protagonisti possono far nascere in vari modi nuove intuizioni su fatti che in un primo momento potevano non sembrare meritevoli di commento.La visione del girato e quindi l’esperienza della oggettivazione delle tradizioni, a cui prima i protagonisti potevano partecipare in modo irriflesso, può portare ad avanzare osservazioni e istituire connessioni inedite.
Fotografie di Umberto Gillio.
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